A CACCIA DI CASE

 Con la scusa di capire come è fatta la città per valutare meglio l'acquisto di una casa e con la complicità di una giornata di sole, fredda ma davvero piacevole per pedalare, intraprendo il mio primo giro in bicicletta per i quartieri di Washington.
 Come tutti sanno, la città è abitata in gran parte da Afro - americani, come li chiamano qua, o neri, come più sbrigativamente si dice da noi. La cosa che ancora mi sorprende, non certo positivamente, è invece che le linee di divisione tra quartieri per bianchi e per neri siano tanto nette e profonde.
 Ma andiamo per ordine. Dalla mia casa in Calvert Street, sita in una zona per bianchi ma che confina da presso con quartieri per "latinos", imbocco il ponte dedicato a Duke Ellington, che passa alto sul Rock Creek Park. Noto subito il cambiamento rispetto alla mia zona, che è fatta di "town " o "colonial houses" (entrambe a schiera) o piccoli "condominiums". Qui ci sono enormi "Apartment houses", condomini composti di case in affitto, di fronte ai quali cartelli pubblicitari recitano "Luxury apartments available" e, qualche centinaio di metri più in là, svettano, su Massachussetts Heights, splendide case unifamiliari, separate l'una dall'altra e  immerse nel verde. Zona per ricchi, evidentemente. Oltrepassata la Cattedrale Nazionale di Washington, enorme dirigibile gotico che vedo bene da casa mia, mi lascio guidare da Wisconsin Avenue, grande arteria che porta dritto a quartieri residenziali rinomati, come Chevy Chase. Attorno, basse case a due piani, con qualche negozio, e lunghi, ma altrettanto bassi, palazzi che ospitano scuole o sedi di aziende; e poi, di traverso, strade sulle quali si affacciano rade case unifamiliari, come se invece che in una delle aree più pregiate della città qui fossimo in una qualche periferia anonima. Misteri dell'urbanistica americana.
 Prima del "development" qua dovevano esserci prati enormi e una veduta di prima scelta sulla campagna circostante. Non per nulla, poco prima di una ripida e dissestata discesa, è spuntata una selva di antenne per telecomunicazioni. Plano con la mia Olmo sul centro commerciale di Friendship heights, che ho già visistato altre volte e che costituisce l'unico spazio commerciale di una certa qualità incontrato negli ultimi quattro chilometri.
 A questo punto, sono già stufo di guardare case che non potrò mai permettermi, in più in una zona piuttosto lontana dal centro e dal lavoro, anche se collegata dalla solita efficientissima metro: perciò decido di imboccare Military road, che mi porterà a est. Il quartiere che lascio è davvero bello perciò mi consento una digressione su Chevy Chase parkway, una strada pacifica e tranquilla (forse troppo) ma verde e molto riservata.
 La lunga discesa giù attraverso il bordo di Rock Creek park, stupendo e selvaggio polmone verde ma anche formidabile fossato tra etnie, è compensata da una ripida salita verso 16th street. Credo sia facile, per chi abita nelle belle case immerse nella vegetazione, dimenticare di trovarsi a venti minuti dal centro della capitale degli Stati Uniti. All'incrocio tra Military road e 16th street ci ero già passato, una domenica che vagavo a piedi per il parco e avevo poi tentato, senza successo, di trovare qualcosa da mangiare scendendo lungo la sedicesima, una specie di autostrada senza un'anima viva, costellata di case unifamiliari e tante, tante chiese, ma del tutto priva di bar o ristoranti.
 Decido di osare un po' di più e raggiungo Georgia avenue, e mi spingo addirittura fino a 7th street. Comincio a scendere verso sud e per un po' lo stampo è unico: lunghe file di case a schiera, all'inglese, di mattoni chiari, a tre piani, delimitano "blocks" regolari. Anche qui, non c'è nessuno in strada. Chissà, penso, forse stanno facendo la siesta o guardano la televisione o... Non mi sembra una zona pericolosa, è solo squallida, e i rarissimi negozi, delle specie di mini supermercati, danno un'impressione di precarietà e di isolamento.
 Dopo qualche saliscendi arrivo a Grant Circle e incontro un'altra grande arteria, Hampshire avenue, che mi porta dritto alla stazione Georgia Ave - Petworth della metropolitana. Mi guardo intorno. Solo neri. Una scuola per bambini fino a dodici anni sottolinea nello striscione pubblicitario "Afro American culture". Non so più se questo sia un quartiere popolare. Comunque le abitazioni sono ben tenute, le strade pulite, anche questa non sembra una zona pericolosa.
 Zigzagando qua e là mi accorgo che qui vicino c'è un altro parco e la carta mostra che è attraversato da due autostrade e popolato da un ospedale, una riserva d'acqua, l'Università Cattolica d'America, un numero imprecisato di college e il mausoleo del milite ignoto. Insomma, sicuramente non mi sto muovendo in una zona di poco pregio. Più giù, verso sud, le strade cominciano a popolarsi di giovani neri. Passo vicino alla Howard university, frequentata esclusivamente da Afro - americani.
 Osservandole meglio, scopro che le abitazioni non sono affatto diverse da quelle che prevalgono in altre zone molto più famose e care: muri in mattoni, torrette e "bow windows", "porches", appartamento nel seminterrato e micro-giardino di fronte all'ingresso. Solo, pare che non ci sia nessun bianco più a est di 16th street e più a nord di S street. Al di là di queste coordinate, solo "black neighborhoods". Le propaggini della comunità "latina", nel senso dell'America centro - meridionale, si estendono fino a qui, un murale campeggia su un "centro culturale" di quartiere, con due volti non-bianchi e la scritta "we must live together in unity": evidentemente non mancano conflitti etnici.
 Mi trovo ancora al di là della barricata, è chiaro, ma è probabile che in questa zona si possano fare buoni affari: chissà se vale la pena...
 Lo faccio apposta: parto da 5th street e, su S street, quindi ormai "downtown", vado verso ovest. La metamorfosi dei quartieri è graduale, senza sbalzi. All'inizio, "buchi" nelle schiere di case, edifici bruciati o chiusi. Su 11th street un pazzo, appoggiato al muro di una casa dipinta di viola con incomprensibili scritte gialle in verticale, mi urla "Fuck you" a più riprese. Poi cominciano a spuntare fuori le prime ristrutturazioni, bianchi camminano o parcheggiano, le file di case si fanno più compatte. Infine, verso 16th street, si torna nella normalità, siamo a due passi da Dupont circle, il centro della vita mondana. Mi impressiona una struttura a forma di tempio greco, enorme e immacolata, con un triangolo e un sole dardeggiante dipinto in alto... Guardo meglio e sì, è proprio la biblioteca del Rito scozzese della massoneria, fondata a metà del 1700: immagino la vastità della sezione "Lobbying pratico e teorico".
 Faccio un'altra puntata verso nord, su 13th street e, tagliando verso ovest, in Florida avenue assisto a una scenetta edificante: un ragazzino sta porgendo qualcosa al guidatore di un furgone che si è fermato in mezzo alla strada. Lui annusa... mah, sarà lavanda per l'armadio?
 Ormai sono su 18th street, praticamente rientrato alla base, ancora due pedalate e spuntano i primi ristoranti di Adams Morgan, il mio quartiere. Allungo un po', su una strada parallela, e trovo un edificio in ristrutturazione: vendono loft (ovvero appartamenti monolocali, ma grandi) "from the 200's", che tradotto significa da 400 milioni di lire in su.
 Poi torno sulla strada principale, colorata, animata di latinos in libera uscita, con negozi e ristoranti. Comincio a pensare di essere stato fortunato ad "atterrare" in questo quartiere, uno dei più gradevoli, per i miei gusti, della città. Ma la curiosità è dura a morire, e quindi, rientrato a casa, decido di ritentare presto l'esperimento, ma senza allargare tanto il giro, insomma esplorando più in profondità una zona più limitata.
 Su Washington calano già le prime ombre della sera...
 

Washington, 28.1.01
Marco Saladini

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